Marc Porcu – Poesie (2) (2024)

L’adieu aux Sardes –

(Traduzione di Giovanni Dettori)

Può anche accadere, vagando, di incrociare casualmente un franco- tunisino di occhio e pelo corvini, crine lungo su spalla larga, baffo e pizzo da guascone. Lo si direbbe, dato il bagaglio somatico, in fuga da una pagina di letteratura ottocentesca.
E, inaspettato, vieni a trovare nel suo bagaglio storico e genetico che sì, è in fuga, ma dal tuo stesso lembo di terra, zattera della medusa. Che è sì, un franco-tunisino, ma “di origine sarda”. Come te, esattamente: di origine sarda. Come ai sardi stanziali piace – e si compiacciono – connotare, ogni qualvolta si trovino a doversene malvolentieri occupare, i transumanti, i fuori-casa.
[ Ridotti né più né meno al rango del turista, del devastatore estivo – che almeno “soldi ne porta” – o saltuari “istranzos”, che di soldi pochi ne hanno e ancor meno ne portano. E, per soprammercato, ogni volta che rientrino “a ghettàre s’abbasànta”, sbaffano a ufo da parenti o amici. ]
Poiché tali e tanti, di figliastri, questa zattera di pietre sempre in eccesso di braccia e teste, ne ha disseminato a mano piena ai quattro venti del mondo, che non appena si sia saltato una sola volta il fosso del Tirreno, per ciò stesso, immediatamente, non si è più sardi. Bensì “di origine sarda”. Stando al crudo “dato” di burocrazia e anagrafe: [dalle quali inconfutabilmente risulta come soltanto all’ivi messo al mondo e residente spetti di diritto il sigillo, o il marchio, di sardo tout-court: ovvero, sardo di orgine controllata. In due consonanti e una vocale: Doc. ]

Di questo “meticcio”, strano impasto e garbuglio di Sardegna-Tunisia-Francia, rispondente al nome di Marc Porcu, poeta e puntiglioso traduttore in lingua francese dei romanzi e delle poesie del mai abbastanza rimpianto Sergio Atzeni, che si era scoperto anche lui “un cuore africano”, ho voluto tradurre due poesie. Queste:

*

* Mi accosterò all’Isola *

I.

Per parlare di lei
una lingua d’involo
nuvole nella voce
e vederla di nuovo
staccata dalla terra

Dal fronte di luna che emerge dall’argento
delle montagne
fino all’orlo di schiuma del suo scialle raccolto
sulle spalle
la seta del tempo
come una sera di stelle al canto del nomade.

Ma chi veglia si fa pietra nella fissità dell’immagine
dove lo sguardo scava il proprio nulla
allora lascia andare la parola
sui paralleli del vento che trapianta
la sua memoria d’argilla
sopra il sale delle partiture.

II.

Per parlare di lei
braccia di mare
l’aria intera a forgiare i miei polmoni
e in fondo all’acqua abbracciarla
con la lingua delle correnti
dall’ossidiana del suo ventre
alla sorgente oscura delle nascite
il sale delle reni a disegnarmi sulla pelle
questa carta del cielo dove i velieri vedono
presagi
aprirsi al respiro del canto.

Ma la memoria non mi ha visto che nascere
all’altra riva del canto.

Separandomi dalle sue palpebre
i venti di sabbia del deserto
ingorgarono i rosoni del mio sangue
con la cadenza di una preghiera ripetuta

preghiera di inserire sopra il mare
il nome dell’isola e dell’amata.

III.

Da una riva all’altra fu necessario vivere
il lungo viaggio di un esilio
con lische nella gola
bocca piena di spine
lingua gelata dall’estraneità
come un pesce che giacesse sopra l’area
alla superficie dell’epitaffio.

Un vecchio moriva
in quale asilo
nello specchio degli occhi il mare ne rinchiudeva i segreti
il suo rantolo riconduceva alla barca
l’orrore dell’ultimo bando
sotto le scaglie della memoria
raschia vocaboli strani
per dire lingua egli diceva “limba”
lasciando emergere dal fondale dei limbi
la corda logora dell’elegia.

E io sono cresciuto nella leggenda di un’sola
avvolta nel suo sudario.

E io sono cresciuto nel silenzio del sangue che fluiva
dentro le mie vene.

IV.

E ho amato il mondo per tutta questa assenza

per l’attesa bruciatura delle castagne
per questo carbone in scintillare di stelle
strappato come un frutto
al ventre della terra
per la basculla nell’ordine vegetale
dove veniva a pesarsi la mandria delle nubi
per l’ombra delle rondini prigioniere
di uno stupore invernale
quando il sole rientrava nella stalla esalando
i vapori della sera.

Per un alfabeto sopra la neve della soglia
dove scrivevo all’antracite
il nome di un amore sconosciuto
il volto vero dei suoi segni.

V.

Ho amato il mondo per colei che venne

col mareggiare dei corpi e l’onda del cuore
con l’ombralùce degli occhi e il diamante di fuoco
ad aprirmi le braccia come una poesia.

E ho amato il mondo per le launéddas
questo sogno di pastori con labbra di canne
riposando le palpebre alla loro polifonia
placando il granito sull’orlo del delirio.

E l’isola si riempì di un sussurro d’ali
fu mia guida nella voce
la mia “vita nova” per cantarla

E con l’anfora della poesia
intonerò a piena voce
la metafora delle sue anche
e la sonora ebbrezza del mio canto.

VI.

Dalla confusione delle lettere
al paradigma dell’esilio
mi accosterò all’isola
dall’interno del nome

seguendo le tracce di una fenicia
che apre nella danza il corsetto del vento
e slaccia i sandali all’aurora
ICHNUSA
coronata di asfodeli al cerchio sacro
dei tuoi flutti approderò a piedi nudi

Investire il sole
Colmare l’attesa
Hài! il dolore delle madri
Nereggiare il pane con l’incendio delle messi
Usurare la lancia delle parole verticali
Sanguinare della pietra fino all’essere
Avanzare di un passo nella memoria del luogo.

VII.

Declinarlo senza fine nell’imperativo del poema
disseppellendo i fonemi dalle loro
tombe di millenni

S A R D E G N A

Nominata da Sardus nel risalire il Nilo
profanata da Cartagine e calpestata da Roma
Sardegna
mucchio di pietra eccedente cui diede forma
un Dio
leggendario
impronta del suo piede
o altare sopra il mare
di un rito di passaggio
nutrendo gli uccelli che alla prua
offerta delle navi
vanno disseminando la tua ombra

VIII.

Sotto l’ala della memoria
sotto l’acrostico del nome
mi accosterò all’isola
come a una donna celata sotto le acque del poema
fissando il suo volto alla marea delle parole.

IX.

Salutare il poeta che decifra l’isola
nei gineprai del cuore ustionato
da mali indelebili
salutare lo scultore Sciola che scruta
i megaliti della parola.

Evocare Sant’Antioco isola ai bordi dell’isola dove
un martire africano un cristo nero delle catacombe
battezzò la rivolta perenne degli avi.

Riannodare con la barca dell’esilio il filo del viaggio
dove il mio sonno è andato alla deriva con il corpo di un pescatore
fino al delirio delle lingue.

Sciogliere il segreto delle pietre dove la luna va cercando
i pozzi di un volto.

Confessare l’amore di una vocale nella grotta marina
dove ho bevuto al calice delle sue labbra
la consonanza amara delle solitudini.

Implorare sul filo dei giorni che le lacrime cessino
nella loro aspra ostinazione
di acuire l’avidità delle armi.

Gemere per l’ulivo squarciato dalla folgore
per l’urna funeraria frantumata dal gelo.

Nominare dall’interno questo accostarmi al luogo.
Nuoro dove veglia uno sparviero
sopra il merletto dei punti cardinali.

Consumare il sale nella dispensa dei morti
innalzare nuraghi con gli occhi all’orizzonte e
abitarne il sogno con una mandria d’ombre.

X.

Con l’aquila nella voce
sorvolando i vulcani

Con l’aria nei polmoni
per rivestirne il grido

Con i venti del deserto
loro rosario minerale

Con l’elegia della brina
nelle labbra d’argilla

Con un corpo che emerge
dalla folgore degli alberi

Con l’alfabeto della soglia
e la luce del pane

Con il crinale dell’essere
nella verticale delle pietre

Con la calce viva delle nubi
smembrando le scogliere

Con i frammenti di un cielo
nel ricamo delle stelle

XI.

Ho sorvolato quanto basta i versanti del tuo nome

Ho versato olio quanto basta sulle ceneri della tua fronte

Ho distillato quanto basta il sambuco delle tue lettere

Quando per lo strappo del tempo tu sembri diffidare
dei santuari effimeri crollati sul tuo ventre
dei lacci della poesia che ti serrano la gola

Quando lasci di nuovo tra me e il tuo nome
tutto il sale dell’esilio
tutto lo spazio del desiderio.

*

* Lettera a Gramsci *

Io ti scrivo, gramsci,
dove tu non leggerai più,
in questo sito di memoria,
luogo della tua nascita da dove irraggi,
manciata di vocali,
cristalli di sale sopra l’asse del mondo
ALES
Attorno il pensiero ha generato il movimento
pietra e vento uno contro l’altro
saggiavano la forza di ogni evocazione,
l’acqua penetrava la terra
attirata dal fuoco che ne attizzava gli sforzi,
la carne indissociabile dal sangue
desiderava
le curve del corpo celebrando la bellezza,
sem*nti nuove nella lingua,
la tua parola disvelava un MONDO
che bisognava dire in altro modo.

Mentre ti scrivo, le tue ceneri
raccolte da pasolini in un soffio tra le pagine,
si mischiano all’inchiostro facendolo più amaro
più dolce,
le raccolgo di nuovo in questi versi,
corona di silenzio intessuto di scirocco,
sul cuore muto dell’ISOLA
intanto l’ala del tempo porta intorno la mia storia
disseminando il mio canto tra AFRICA e
EUROPA.

Orfano di lingua in questa lettera
vorrei parlarti di mia madre, gramsci,
nel lavoro duro senza scuola il suo nome è una traccia
letta con pena,
un’eco forse, delle leggende siciliane che
accompagnava suo padre
dietro un cavallo di polvere guidava le pietre del deserto
dove sotto il grande cielo
blu dell’AFRICA
si sarebbe incantato il suo destino.
Su questa terra, gramsci.
sulle sue rive al termine delle onde,
vagheggiando porpore fenicie a rivestire la vostra
ISOLA in lutto,
un pescatore condusse la sua barca
per alti fondali fuggendo
l’acqua stagnante del fascismo per salvare i figli.
Qui è cresciuto mio padre,
la madre morta negli occhi
il cuore spento in questo ESILIO e il corpo avvolto
da un velo rosso
colore di un manifesto di PARIGI dove un poeta ( 1 )
d’ARMENIA
ha messo a nudo anche il cuore ( 2 )
a disarmare le infamie.
Io ti parlo di loro poiché nel loro sorriso
tu sopravvivi, gramsci,
le loro ceneri confuse alle tue hanno varcato
la frontiera degli inganni
mai più vi befferanno
le bandiere ripiegate a lutto.

Africano universale il mio primo grido d’
AFRICA ombelicale il mio primo giorno
la stessa luce ardeva sull’ISOLA,
intorno a me neonato straniero,
parole strane,
straniero anche in FRANCIA
dove ho appreso a leggere, a scrivere,
a contare anche gli amici
e formiche di diciotto metri ( 3
mescolando i loro piedi alle vecchie canzoni
dove Orlando soffiava nel suo corno
mentre Rousseau chiamava “bons sauvages”
noi che tra i roveti
raccoglievamo biancospini
tra rovi che sempre ci graffiavano
anticipando i fiori del male
come l’alba le illuminazioni
e sempre dal fondo delle tombe
la coscienza tratteneva l’occhio aperto ( 4 )
nell’ora di morale
venivamo da ogni parte del mondo
per imparare da Rabelais
tutti matti da legare
nella gran nave del battello ubriaco ( 5 )
in funzione dei campi magnetici ( 6 )
si poteva anche pesare i nostri nervi ( 7 )
le parole ci risalivano nel sangue
era l’unica nostra emoglobina
non si aveva la medesima faccia
eppure nessuno si sentiva straniero
poiché sapevamo che si potrebbe vivere
nel silenzio del mare ( 8 )
quando le montagne diranno il loro nome.

Così, mentre tu scrivevi le tue lettere
dal carcere,
io ti scrivo liberamente dalla Francia,
paese dove ti ho letto
come legate al pane quotidiano si leggono
queste tre parole che bisogna ridire
per dire l’umana identità:
LIBERTA’ – EGUAGLIANZA – FRATERNITA’

Ti scrivo in poesia, gramsci,
lingua senza altro padrone tranne il ritmo
del corpo
rifugio della verità non alterata
quando discorsi di cristallo e ferro
tagliano
le labbra ai figli e
piagano
le mani ai padri
lingua
lo sai che scardina le porte
delle carceri e dei bunkers
fa crollare i muri
lingua che ancora oggi cantano i morti
dei campi
dentro la nebbia che ne riveste l’ombra
lingua infine mia infine nostra dappertutto
essa abita il MONDO
in essa la sua tragedia genera un canto
un canto dell’indomani
e domani
dal fondo dell’abisso
alla spuma accecante del pensiero
le tue lettere scritte per l’al-di-là dei muri
per l’al-di-là dei mari
si raccoglieranno ancora nella posta dell’alba
e decifrandole per caso
in strade senza battesimo
migrazioni future di bambini
grideranno nomi che potrebbero salvarli.

Ti scrivo di notte, gramsci,
perché non muoia la farfalla della memoria,
resti nera farfalla questa seta nell’aria,
dove un attimo freme lo splendore d’essere,
nelle sue frasi che muoiono, nelle sue frasi
per rinascere sotto le dita dei ciechi,
in questa luce interiore
dove l’opale del silenzio riconcilia
le mani che si staccano dal loro senso,
questo secolo dove tante ali
bruciate dalle radiazioni
non si aprono che per chiudersi come spoglie
dentro scrigni di oblio.

Io ti scrivo da LIONE,
gramsci,
dove al tuo passaggio nel ventisei
pochissimi intesero
quanto avevi detto:
contro il fascismo non c’era una sola
parola giusta
la parola giusta doveva aprirsi a ogni voce,
abbracciare ogni corrente che incessante sognava
la confluenza in un comune grido, ( 9 )
e tuttavia più tardi, da questa comunione
nasceva della città l’altro nome
LIONE
CAPITALE DELLA
RESISTENZA
e intorno, nella notte frugata dai laser,
risuonano parole ancora vive sfuggendo
la monomania degli schermi,
passano nella luce del pensiero i volti
delle vittime
e insieme a te affermano:
“storia nostra prigione
storia nostra libertà”.

E così io ti scrivo, gramsci,
desiderando con una lingua infine mia
riannodare i fili della storia,
aprire un solco sopra il mare,
designando alla fine
l’ISOLA,
in questo pugno di sale
dove ancora risplende
ALES
cristallo di libertà.

Colpito in pieno soffio al molo di partenza
questo viaggio di ritorno che non potrai più fare
nella mia lettera sia il tuo partire
e ritornare.

15 aprile MMIII

(traduzione di Giovanni Dettori)

p.s. :
mi sono permesso di azzardare qualche nota. In sequenza:

(1)pg. 109 … “couleur d’une affiche à Paris où un poète d’ARMENIE”… riferimento alla poesia di Aragon« L’affiche rouge », in memoria del poeta armeno Manouchian,combattente nella Resistenza francese.
(2)stessa pagina … “a mis aussi son coeur à nu”… Baudelaire: “Mon coeur mis à nu”.
(3)pg. 110 … « et des fourmis de dix-huit mètres »… poesia-cantilena di Robert Desnos imparata da Marc alle elementari.
(4)stessa pagina … « et toujours du fond des tombeaux / la conscience gardait l’œil ouvert»… poesia di Victor Hugo « La conscience ou Caino ».
(5)pg. 111 … « la grande nef du bateau ivre » … Rimbaud « Le bateau ivre ».
(6)stessa pagina … « on pouvait même peser nos nerfs » … Artaud « Le pèse-nerfs ».
(7)verso seguente … « en fonction des champs magnétiques » … André Breton e Philippe Soupaut « Les champs magnetiques ».
(8)stessa pagina … « dans le silence de la mer » … Vercors. « Le silence de la mer ».
(9)pg. 113 … « au confluent d’un cri commun » … riferimento a « Confluent », rivista clandestina alla quale collaborava, a Lione, il padre del regista Bertrand Tavernier.

Marc Porcu – Poesie (2) (2024)

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